Testi di Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo) - Emőke Baráth, Барбара Строцци

Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo) - Emőke Baráth, Барбара Строцци
Informazioni sulla canzone In questa pagina puoi trovare il testo della canzone Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo), artista - Emőke Baráth. Canzone dell'album Strozzi: Voglio cantar, nel genere Мировая классика
Data di rilascio: 03.01.2019
Etichetta discografica: Parlophone

Strozzi: Cantate, Ariette e Duetti, Op. 2 No. 17: Il Lamento (Sul Rodano severo)

(originale)
Sul Rodano severo
giace tronco infelice
di Francia il gran scudiero,
e s’al corpo non lice
tornar di ossequio pieno
all’amato Parigi,
con la fredd’ombra almeno
il dolente garzon segue Luigi.
Enrico il bel, quasi annebbiato sole,
delle guance vezzose
cangiò le rose in pallide viole
e di funeste brine
macchiò l’oro del crine.
Lividi gl’occhi son, la bocca langue,
e sul latte del sen diluvia il sangue.
Oh Dio, per qual cagione
(par che l’ombra gli dica)
sei frettoloso andato
a dichiarar un perfido, un fellone,
quel servo a te sì grato,
mentre, franzese Augusto,
di meritar procuri
il titolo di giusto?
Tu, se ’l mio fallo di gastigo è degno,
ohimè, ch’insieme insieme
dell’invidia che freme
vittima mi sacrifichi allo sdegno.
Non mi chiamo innocente:
purtroppo errai, purtroppo
ho me stesso tradito
a creder all’invito
di fortuna ridente.
Grand’aura di favori
rea la memoria fece
di così stolti errori,
un nembo dell’obblio
fu la cagion del precipizio mio.
Ma che dic’io?
Tu, Sire – ah, chi nol vede?
tu sol, credendo troppo alla mia fede,
m’hai fatto in regia corte
bersaglio dell’invidia e reo di morte.
Mentre al devoto collo
tu mi stendevi quel cortese braccio,
allor mi davi il crollo,
allor tu m’apprestavi il ferro e ’l laccio.
Quando meco godevi
di trastullarti in solazzevol gioco,
allor l’esca accendevi
di mine cortigiane al chiuso loco.
Quella palla volante
che percoteva il tuo col braccio mio
dovea pur dirmi, oh Dio,
mia fortuna incostante.
Quando meco gioivi
di seguir cervo fuggitivo, allora
l’animal innocente
dai cani lacerato
figurava il mio stato,
esposto ai morsi d’accanita gente.
Non condanno il mio re d’altro errore
che di soverchio amore.
Di cinque marche illustri
notato era il mio nome,
ma degli emuli miei l’insidie industri
hanno di traditrice alla mia testa
data la marca sesta.
Ha l’invidia voluto
che, se colpevol sono,
escluso dal perdono
estinto ancora immantinente io cada;
col mio sangue ha saputo
de’ suoi trionfi imporporar la strada.
Nella grazia del mio re
mentre in su troppo men vo’,
di venir dietro al mio pie’
la fortuna si stancò,
onde ho provato, ahi lasso,
come dal tutto al niente è un breve passo.
Luigi, a queste note
di voce che perdon supplice chiede,
timoroso si scuote
e del morto garzon la faccia vede.
Mentre il re col suo pianto
delle sue frette il pentimento accenna
tremò Parigi e torbidossi Senna.
(traduzione)
Sul Rodano severo
giace tronco infelice
di Francia il gran scudiero,
e s'al corpo non lice
tornar di ossequio pieno
all'amato Parigi,
con la fredda ombra almeno
il dolce garzon segue Luigi.
Enrico il bel, sogliola quasi annebbiato,
delle guance vezzose
cangiò le rose in viola pallido
e di funeste salamoia
macchiò l'oro del crine.
Lividi gl'occhi figlio, la bocca langue,
e sul latte del sen diluvia il sangue.
Oh Dio, per qual cagione
(par che l'ombra gli dica)
sei frettoloso andato
a dichiarar un perfido, un fellone,
quel servo a te sì grato,
mentre, franzese Augusto,
di meritar procurarsi
il titolo di giusto?
Tu, se 'l mio fallo di gastigo è degno,
ohimè, ch'insieme insieme
dell'invidia che freme
vittima mi sacrifichi allo sdegno.
Non mi chiamo innocente:
purtroppo errai, purtroppo
casa mia stessa tradizione
un credente all'invito
di fortuna ridente.
Grande aura di favori
rea la memoria fece
di così stolti errori,
un nembo dell'obblio
fu la cagione del precipizio mio.
Ma che dico?
Tu, Sire – ah, chi nol vede?
tu sol, credendo troppo alla mia fede,
m'hai fatto in regia corte
bersaglio dell'invidia e reo di morte.
Mentre al devoto collo
tu mi stendevi quel cortese braccio,
allor mi davi il crollo,
allor tu m'apprestavi il ferro e 'l laccio.
Quando meco godevi
di trastullarti in solazzevol gioco,
allor l'esca accendevi
di mine cortigiane al chiuso loco.
Quella palla volante
che percoteva il tuo col braccio mio
dovea pur dirmi, oh Dio,
mia fortuna incostante.
Quando meco gioivi
di seguir cervo fuggitivo, allora
l'animale innocente
dai cani lacerato
figurava il mio stato,
esposto ai morsi d'accanita gente.
Non condanno il mio re d'altro errore
che di sovrano amore.
Di cinque marche illustri
notato era il mio nome,
ma degli emuli miei l'insidie ​​industri
hanno di tradizione alla mia testa
data la marca sesta.
Ha l'invidia voluta
che, se colpevol sono,
escluso dal perdono
estinto ancora immatinente io cada;
col mio sangue ha saputo
de’ suoi trionfi importar la strada.
Nella grazia del mio re
mentre in su troppo men vo',
di venire dietro al mio pie’
la fortuna si stancò,
onde ho provato, ahi lazo,
come dal tutto al niente è un breve passo.
Luigi, a queste note
di voce che perdon supplice chiede,
timoroso si scuote
e del morto garzon la faccia vede.
Mentre il re col suo pianto
delle sue frette il pentimento accenna
tremò Parigi e torbidossi Senna.
Valutazione della traduzione: 5/5 | Voti: 1

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