| Era un venerdì di aprile 1986,
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| Il giorno in cui iniziò l'incubo,
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| Quando la polvere piovve sui nostri edifici e strade,
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| Ed è entrato nelle nostre camere a mezzogiorno,
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| Toccato l'erba e le strade, biciclette, automobili,
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| Letti libri e cornici anche,
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| Siamo stati in giro, indifesi, confusi,
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| Nessuno sapeva cosa fare.
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| Alle due di domenica arrivarono gli autobus,
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| Una flotta di migliaia o più,
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| Ci è stato ordinato di essere in viaggio,
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| Non sapendo cosa c'era in serbo,
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| Alcuni dei nostri cittadini sono fuggiti sgomenti,
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| E ho cercato un buon posto dove nascondersi,
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| Sono arrivate le quattro e l'ultimo autobus è partito,
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| È stato il giorno in cui è morta la nostra bella città.
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| E le camicie e i fazzoletti si rompono al vento,
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| Sul davanzale della finestra le piante appassite,
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| E il Ladas e il Volga sono parcheggiati vicino alla porta,
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| E la bici è nella sua posizione abituale.
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| I nostri alberi sempreverdi giacciono appassiti e caduti,
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| Hanno avvelenato la nostra fertile terra,
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| Le strade parlano un silenzio assordante,
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| Niente si muove tranne la sabbia.
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| Una visita a casa è così inquietante oggi,
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| Una moderna Pompei in vista,
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| Per vedere tutte le vecchie botteghe e il Forest Hotel,
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| E anche il Promyet Cinema.
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| I ricordi che abbiamo raccolto sono stati tutti lasciati indietro,
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| Le nostre foto, lettere e cartoline,
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| I giocattoli dei nostri bambini ormai intoccabili,
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| Soldatini rimasti in guardia.
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| Quindi addio Pripyat, casa mia e anima mia,
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| Il tuo dolore non può avere sollievo,
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| Uno scorcio terrificante del futuro che mostri,
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| I tuoi figli sono tutti dispersi come oche,
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| La linea dei vestiti oscilla ancora ma i proprietari se ne sono andati da tempo,
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| Con il ritorno dell'era nomade,
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| La domanda in bianco e nero sfocata in grigio,
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| La risposta è troppo facile da imparare. |